Confessioni di una conferencehaolic. Edizione 2018

Confessioni di una frequentatrice compulsiva di conferenze di design, comunicazione e digitale e i post in cui ve le racconto.


Una nave da crociera si era trasformata in sale per riunioni, per commissioni, per il lavoro organizzativo. Un solo rumore: lo sciabordio dell’acqua sullo scafo; una sola atmosfera: di giovinezza, di fede, di modestia e coscienza professionale.

—Le Corbusier, 19331

Conferenze del 2018

Questo, più o meno, l’elenco delle conferenze, workshop, lezioni o seminari a cui ho partecipato nel 2018 con i relativi post:

Gennaio

Febbraio

Marzo

Aprile

  • Di tutti i colori! Il colore progettato con Riccardo Falcinelli, MUBA di Milano
  • Ux Book Club: Divide et Impera. Why and how to build a Design System con Roberto Falcone

Maggio

Giugno

Luglio

  • EARTH2018 Digital Environments for education, arts and heritage, Freie Universität Bozen

Settembre

Ottobre

Novembre

Dicembre

  • Leggere un luogo, rappresentare il paesaggio con Simo Capecchi, Politecnico di Milano

[Avvertenza: da qui in poi il post diventa moderatamente sarcastico]

Premessa

Frequento conferenze – seminari e workshop – per mestiere, per condividere il mio lavoro di ricerca, per curiosità, per aggiornamento o per imparare cose nuove direttamente da chi le sa/fa. Le ritengo uno strumento validissimo di disseminazione culturale e di connessione personale.
Tuttavia, a fronte dell’aumento esponenziale del numero, frequenza e varietà, mi interrogo sulla loro utilità. Specialmente se ti trovi a correre tra 6 sessioni parallele, senza poi riuscire a seguire quasi nulla.

Le community al tempo dei post-social

Le conferenze sono sempre state un momento di incontro delle comunità, specialmente in ambito scientifico e culturale, dove condividere risultati, nuove idee e stati di avanzamento di ricerche e progetti. Nel tempo lento dei secoli scorsi erano l’occasione di contatto e dialogo diretto. Le interazioni avvenivano, altrimentimenti, grazie alla corrispondenza ed alle poche, ponderate e significative pubblicazioni.

La rete ha avuto il grandissimo merito di permettere a chiunque, ovunque, di trovare contenuti, contatti e informazioni – quelli digitalizzati e/o on line, ovviamente 😉 – garantendo un’inimmaginabile possibilità di ampliare la propria conoscenza.
Ma al tempo dell’accesso universale, dei social e dei post-social, le conferenze hanno ancora senso?
La percezione che si trae dalla vita online è  di essere informati, di avere una dieta digitale varia, appetitosa, saziante e il frigo ancora pieno! La sensazione è di essere intellettualmente autosufficienti all’interno di gruppi di simili concordi e fin troppo assertivi in cui la dimensione virtuale è reale, ma al contempo straniante, come sostiene la Turkle [1].

A maggior ragione nell’era, che definirei, dei post-social.
Una sorta di deriva presa dalle piattaforme di social sharing e social media – il post web 2.02 — andate talmente oltre che, anziché essere una occasione di crescita e di costruzione di un’intelligenza collettiva [2], sono diventate piuttosto bolle sociali, rumore di fondo, doping SEO e ring per algoritmi e haters.

Ben vengano, dunque, le conferenze se rimangono e si rinnovano come luogo di dibattito, di dialogo articolato, se torna ad esserci spazio per le domande e per le critiche.

È il social brandig, bellezza!

La seconda riflessione è rispetto al ruolo che le conferenze svolgono nell‘epoca dell’accessibilità sociale che ha ridotto i famosi 6 gradi di separazione a 2 e 1/23 e anche meno.
Sui social puoi dare un poke, seguire, contattare e dialogare con chiunque famoso o tuo pari, senza quelle barriere e asimmetrie tipiche del mondo reale.

L’impressione è che le conferenze siano rimaste una cerimonia per migranti digitali e che, tutto sommato – data la possibilità di farsi firmare un libro o farsi un selfie con il guru di turno – siano uno strumento sempre più sbilanciato sul social networking rispetto ai contenuti.

Mi sembra, inoltre, che la generazione Z – o come la si voglia chiamare – abbia trovato spazi altri, a propria misura, per soddisfare le esigenze in/formazione sia come speaker, sia come pubblico. Le conferenze rischiano di essere un rito istituzionale, ma di altri tempi, al massimo un momento di autorappresentazione e di costruzione di un sé pubblico.
Anche se, in fondo, perfino i/le più affermat* blogger/influencer sentono poi la necessità di scrivere un libro, andare in televisione, come se solo certi passaggi nel mondo reale/tradizionale sancissero il successo e la fama.

Guru ne abbiamo?!

In questo senso, le conferenze sono diventate simili al mercato dell’arte: organizzi la mostra con un unico pezzo/autore di grido molto conosciuto e di facile consumo (Picasso è tra i più gettonati) anche per un pubblico di massa e poi esponi una serie di pezzi minori che nel circo mediatico-espositivo aumentano il loro valore, quotazione e notorietà.

Così si vedono nomi, guru e altra varia umanità portare in tourneé i propri cavalli di battaglia. A volte il pezzo forte non è nemmemo troppo in sintonia con il focus dell’evento, così ti ritrovi ad ascoltare un insieme eterogeneo e disarticolato di punti di vista. La prima volta che li senti li trovi anche interessanti e originali in sé, la seconda ti astrai, la terza speri di non esserci, ma se fai parte dell’ambiente difficilmente la scansi.

Le conferenze stesse sembrano avere confini sempre più osmotici e sbavati, vuoi per il cambio della buzzword del momento o per il fisiologico appannarsi o l’esaurirsi di certe tematiche, a cui però, spesso, l’evento cerca di sopravvive.

Capisco le motivazioni economiche e strategiche di chi organizza (eterna riconoscenza per lo sbattimento, sul serio!), la necessità di riempire le sale e di catalizzare l’attenzione, in un mondo sovraffollato, ma a volte la cosa sfugge un po’ di mano…

Bene, ma non benissimo

Il rischio, infine, è di ritrovarsi ad ascoltare i soliti interventi basic, pensati per un pubblico di newbies che stanno muovendo i primi passi nell’ambiente, anziché per una community che si incontra, spesso annualmente, per raccontarsi e ascoltare la frontiera più avanzata della ricerca, dei progetti e della riflessione teorica del settore.

Nulla di male, ma forse certe attività andrebbero affiancate o anticipate rispetto alla conferenza vera e propria per creare uno spazio di inclusione, senza edulcorare un dibattito necessariamente più esperto e complesso.

Ché, a furia di sentire le stesse cose, mi annoio! 😀

Conferenza di Solvay, 1927
“I Congressi Solvay sono un esempio di come conferenze ben pianificate e ben organizzate possano contribuire al progresso della Scienza”.
—Werner Heisenberg

 


Bibliografia minima:

  1. Turkle, S. (2016). Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age. Penguin Group
  2. Lévy, P. (1994). L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazioMilano: Feltrinelli

  1. la citazione e l’immagine fanno riferimento al IV CIAM Congresso Internazionale di Architettura Moderna considerato il momento fondativo del movimento e del concetto moderno di architettura. Il congresso si svolse su di una nave da crociera e, durante l’attraversata del Mediterrano da Marsiglia ad Atene, i partecipanti stilarono la Carta di Atene: il manifesto del Razionalismo
  2. definizione data da Tim O’Relly nel 2004
  3. con riferimento rispettivamente alla teoria di Frigyes Karinthy esposta in Catene1 nel 1929 e al  più recente libro di Domitilla Ferrari: Due gradi e mezzo di separazione. Come il networking facilita la circolazione delle idee (e fa girare l’economia) uscito nel 2014.

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